«Ti chiedi mai dove vadano a dormire?»
«Chi?»
«I gabbiani. Non stai dipingendo una coppia di gabbiani?»
«Gabbiani? Gian, per favore!»
Sconcertata, Lice posa il pennello e sposta lo sguardo dalla tela al ragazzo seduto accanto a lei sulla sabbia.
«Sono sterne» sospira, riprendendo a tracciare sul foglio il contorno di un becco giallo e sottile.
«Esci a pescare ogni giorno e non sai distinguere un gabbiano da una sterna?»
Gian si innervosisce e comincia a giocherellare con un frammento di conchiglia.
«Devo stare attento a quello che succede in acqua, assicurarmi che le reti non si impiglino… guardare in alto è l’ultima cosa che mi verrebbe in mente di fare» replica.
«Non sai cosa ti perdi» sorride Lice. «Il cielo è fantastico. Racchiude talmente tante sfumature di
colore che imprigionarle tutte in una tavolozza sarebbe impossibile, e poi non è mai vuoto: è un’autostrada di nuvole e gli uccelli sono pedoni che non sanno stare sul marciapiede e invadono la carreggiata… capisci? Anche il mare è bello, certo, il mare è azzurro, blu, bianco, ma è solo il riflesso dello splendore del cielo e non riuscirebbe mai a eguagliarlo.»
Un tuono lugubre rimbomba all’orizzonte, mentre il vento, già intenso, si fa sempre più forte,
rovesciando il bicchiere di carta in cui la ragazza aveva riposto i pennelli più sottili. Impossibile affermare che sia una giornata limpida, pare anzi che un brutto temporale si prepari a sferzare la costa.
«Sai cosa non mi convince del cielo che tu tanto adori?» chiede Gian, intenzionato a ribattere
all’appassionante discorso appena ascoltato. «È talmente lontano che non lo posso toccare. È a tutti gli effetti in un’altra dimensione, è come il coperchio di un grande contenitore che non posso aprire per vedere cosa c’è fuori. Invece nel mare ci posso entrare, potrei tuffarmi e frugare ogni anfratto, se volessi. È molto più rassicurante.»
«Non siamo sulla stessa lunghezza d’onda, questo è certo» scherza Lice, rimanendo in tema.
Il ragazzo aggrotta le sopracciglia ma, suo malgrado, è costretto a darle ragione.
Se qualcuno li osservasse da lontano potrebbe scambiarli per due innamorati e, da un certo punto di vista, non sbaglierebbe; tuttavia, i sentimenti che provano non sono reciproci né rivolti ad altre persone. Nel cuore di Gian c’è spazio solo per il mare, per gli schizzi di acqua salmastra che gli accarezzano il viso e per l’odore del sale e della benzina alle prime luci dell’alba. Lice, invece, ama incondizionatamente il cielo e i suoi contorni sfuggenti, le nuvole con le loro forme strane, i loro colori, e, infine, la pioggia che porta la vita e che, d’estate, permette di danzarci sotto bagnandosi fino al midollo, come accade nei film.
Non è raro che i due amici trascorrano interi pomeriggi seduti sulla sabbia, per la maggior parte del
tempo senza spiccicare parola: lei ha sempre con sé cavalletto, tela e pennelli, mentre lui semplicemente le sta accanto, con lo sguardo che oscilla dal bagnasciuga alla linea incerta dell’orizzonte…
«Quel cormorano continua a girare in tondo. Non ti ricorda un avvoltoio?» rompe il silenzio la
ragazza, stupita e al tempo stesso affascinata dal singolare comportamento dell’uccello.
Senza darle ascolto, gli occhi fissi sul mare, Gian si rabbuia: «Cos’è quella?»
«È una barca» afferma decisa Lice, seguendo il suo sguardo.
L’amico deglutisce: «Come mai viene in questa direzione? C’è burrasca, oggi, e questa baia è piena di scogli, lo sanno tutti. Accidenti, mi sembra sia il motoscafo che il vecchio Rudy noleggia ai turisti… possibile che qualche straniero sia uscito al largo senza un accompagnatore? Non sanno che è pericoloso? Avrebbero almeno potuto…»
Il cielo è nero, adesso, e nell’aria si comincia a percepire l’inconfondibile e delicato aroma che precede le piogge torrenziali. A fare più paura, però, è il vento che investe e deforma tutto ciò che incontra: anche le urla che si alzano dal mare paiono attutite, quasi fossero state obbligate a passare in una centrifuga prima di essere lasciate libere. Il piccolo motoscafo, ora ben visibile, si impenna, poi scompare inghiottito da un’onda, riemerge in superficie ma cozza contro un ostacolo e dal rumore pare spaccarsi in due.
«Gian, affogheranno! Dobbiamo chiamare i soccorsi!»
«Arriverebbero comunque troppo tardi! Fallo tu, io vado.»
Lice si volta per trattenerlo, ma lui non è già più lì: ha abbandonato le scarpe sulla spiaggia e sta correndo fra le alghe nell’acqua bassa. Ecco, si è tuffato e avanza a grandi bracciate in direzione dell’esile imbarcazione che arranca in mezzo agli scogli.
«Aspetta!» gli urla la ragazza. Compone in fretta il numero d’emergenza, spiega la situazione e
scongiura che facciano presto, il più presto possibile. Poi segue l’esempio dell’amico, si avvicina scalza e circospetta al bagnasciuga, chiude gli occhi e lascia che il mare la avvolga nel suo abbraccio gelido e impetuoso.
«Dove sei, Gian?»
«Qui! Davanti a te. Vieni!»
Il ragazzo ha ormai raggiunto il motoscafo e, con quel poco d’inglese che ricorda dai tempi della scuola, tenta di spiegare ai sette stranieri abbarbicativi che la cosa migliore da fare è buttarsi in acqua e nuotare tutti insieme verso la spiaggia. Eppure, quelli continuano a urlare e a sbracciarsi indicando un punto imprecisato nel mare intorno a loro. Ripetono quasi in coro una parola di cui Gian non riesce ad afferrare il significato… oh, se solo fosse in grado di intendere la lingua parlata da quella gente! Finalmente, una donna gli fa vedere le sue mani: le tiene entrambe aperte, ma una ha mignolo e anulare abbassati… «Otto! Ho capito, eravate in otto e ne è finito uno in mare! Dove? Dov’è caduto?»
I turisti non lo sanno. Gian si volta preoccupato verso la spiaggia deserta e, con un sospiro di
sollievo, vede la testa di Lice sbucare dall’acqua a un paio di metri da lui. La ragazza lo raggiunge con un’ultima bracciata, lo guarda, gli fa cenno di aver sentito, stringe le labbra in una smorfia colpevole e poi, quasi con fatica, si rivolge agli stranieri, spiegando a gesti che il loro compagno è già riuscito a raggiungere la costa e si trova al sicuro. Per confermare la sua bugia, sorride con aria incoraggiante e indica con il mento la terraferma.
Sospettosa ma confortata, la carovana di naufraghi si decide ad abbandonare il motoscafo e, benché
a una velocità spasmodicamente lenta, comincia ad avanzare verso la riva… per fortuna la zona di acqua bassa non è troppo distante e, grazie al cielo, nella baia irrompe un fuoristrada della guardia costiera con a bordo quattro uomini che si lanciano di corsa in loro aiuto. L’incubo è finito! I sette villeggianti vengono condotti all’asciutto e subito vengono loro fornite delle mantelle per riscaldarsi. Lice e Gian, esausti, si gettano a peso morto sulla sabbia.
«Sono venuti tutti con voi, ragazzi?» li appella un soccorritore, invitandoli a sedersi e ad avvolgersi
in una stagnola.
«Sì. Cioè, no. Uno era caduto in mare prima che li raggiungessimo.»
«Sicuri? Allora inviamo subito una squadra di ricerca, così...»
«Non ce n’è bisogno» interviene Lice, fissando attonita un punto del bagnasciuga. «È lì.»
Gian sbarra gli occhi, è costernato: «Allora era vicino! Come abbiamo fatto a non vederlo? Forse…»
L’uomo con cui stavano parlando li costringe immediatamente ad allontanarsi, senza lasciare loro il
tempo di allungare lo sguardo su quel corpo ancora mezzo sommerso, inerme, che le onde lambiscono pacifiche, quasi ostentando fierezza per essere state in grado di averlo ricondotto a riva.
Dal cielo, plumbeo come i sentimenti che aleggiano sulla spiaggia, iniziano a scendere gocce impercettibili che si mescolano alle lacrime dei due ragazzi.
La pioggia non si ferma e continua a cadere a dirotto per tutta la settimana successiva. Per la prima
volta nella sua vita, Lice non ha nessuna voglia di uscire a danzare sotto l’acqua incessante: desidera soltanto che il brutto tempo passi per lasciare il posto a una serie di giornate soleggiate che le permettano di seppellire l’esperienza che ha vissuto sotto un mare di nuovi ricordi. Fortunatamente, però, e i pescatori lo sanno meglio di chiunque altro, le perturbazioni atmosferiche durano meno dei turbamenti d’animo e, una volta svanite le prime, anche i secondi possono cominciare a dileguarsi con maggiore facilità.
Appollaiato a prua della sua barca, investito dalla calda luce dei raggi del mezzodì, Gian scruta il
cielo proteggendosi gli occhi con il dorso della mano. In fin dei conti, pensa, Lice ha ragione: spinte dall’insistenza del vento, le nuvole corrono e paiono sfidarsi in gare di velocità, impennandosi come motociclette in mezzo a una superstrada, mentre gli uccelli urlano, urlano per incitare quei giganti grigi ad andare ancora più svelti, a cambiare continuamente e meravigliosamente forma… «Secondo te ci sta guardando da lassù?»
Gian si volta. Pentita di aver rotto quel magico silenzio, Lice riabbassa gli occhi sulla scia di spuma
bianca che il piccolo peschereccio crea incidendo l’acqua scura. Ha cambiato idea riguardo al mare, ora gli vuole bene, lo considera un amico vecchio di secoli, un immenso essere vivente con sentimenti e ricordi nascosti sotto la sabbia dei fondali.
«Credo di sì» risponde il ragazzo.
«Io invece penso che la sua anima sia rimasta fra le onde. Se mi concentro, posso vederla guizzare in superficie per poi immergersi, prendere la rincorsa e schizzare fuori come un delfino.»
Gian sorride: «Oppure può darsi che abbia deciso di vivere sul confine. A metà tra cielo e mare,
intendo, a cavallo dell’orizzonte, da dove le albe e i tramonti, gli spettacoli più belli della natura, si vedono ogni giorno come seduti in prima fila.»
«Magari sa anche dove vanno a dormire i gabbiani» azzarda Lice.
«Già, magari…»