Menzione Speciale in memoria di Marta

SPIRAGLI NEL BUIO

Mario Bortoletto


1 settembre 1939: le truppe tedesche invadono la Polonia. È l’inizio della Seconda Guerra Mondiale. Il 23 novembre 1939, le autorità d’occupazione civili tedesche richiesero che gli Ebrei di Varsavia si auto-identificassero indossando sul braccio una fascia bianca con una Stella di David blu. Da questo momento nessun ebreo può dirsi al sicuro, i soldati tedeschi cominciarono a portare gli ebrei in dei campi della morte, i campi di concentramento li chiamavano.


29 gennaio 1940
Sapevo che prima o poi quel giorno sarebbe arrivato. Io ero un ragazzo ebreo, come la mia migliore amica, Julia.
Quel momento era buio, triste, macabro per tutti, ma soprattutto per noi.
I tedeschi avevano occupato la Polonia già da tre anni. Io i tedeschi li odiavo con tutto me stesso: non capivo il motivo di tutta quella cattiveria.
Arrabbiato come una tigre, mi chiedevo sempre: “cosa abbiamo fatto noi ebrei per meritarci questo?”
Ogni volta diventavo rosso come un pomodoro, le sopracciglia si inarcavano, e stringevo i pugni fino a strapparmi la pelle.
Sempre più cose, anche le più banali, a noi ebrei erano state vietate: andare in macchina, prendere l’autobus o andare in bicicletta.
Solo una cosa potevo ancora fare: andare a scuola. Una volta la scuola mi piaceva ed ero anche bravo, ma in questi ultimi mesi tutti mi prendevano in giro, si allontanavano da me, o mi consideravo una bestia. Non giocavo più neanche con il mio migliore amico Tommy, all’inizio ci giurammo di restare uniti per sempre ora per lui ero solo un virus, da schiacciare.
Giorno dopo giorno mi sentivo diverso anch’io e così mi rintanavo in bagno a piangere, solo una persona veniva consolarmi: Julia.
Julia era come me. Viveva davanti a casa mia, ci conoscemmo quando a malapena avevamo tre anni. Inizialmente avevo paura di lei, Julia era una persona molto violenta e permalosa, ma col tempo capii che era proprio quello che mi piaceva di lei, ma soprattutto era l’unica persona che veramente mi capiva.


Quel giorno sembrava uno come molti altri. La neve si poggiava candidamente sulla terra, quasi volesse fermare tutto quel male.
Invece tutto era diverso.
Julia era venuta con me a casa, ma ad aspettarci sulle scale della piazza principale non c’era, come sempre, Ale.
Ale per me era tutto: un amico sì, ma anche un compagno di viaggio; a lui poteva confidare tutto, ma soprattutto come molti altri era scomparso nel buio.
Quando seppi della sua scomparsa era come se il mio corpo si fosse fermato, piansi a dirotto non mangiai e non bevvi.
Chiedevo ripetutamente ai miei genitori cosa gli fosse successo, loro rispondevano sempre: “queste sono cose che non ti riguardano, ma che ti riguarderanno.”
Pensai per molto tempo a quell’ affermazione così misteriosa ma soprattutto così insolita.
Non riuscivo a sopportare quelle frasi irrisolvibili, ma pensavo che quello che era successo ad Ale sarebbe potuto succedere anche a noi.
Io in verità sapevo tutto: giorno dopo giorno persone ebree salivano in dei camion e non ritornavano più: come se fossero polverizzati nell’aria. Alcuni vecchi del mio quartiere raccontavano di aver sentito che gli ebrei saliti sul camion venissero portati in un campo della morte. I campi di sterminio, li chiamavano: venivano costretti a lavorare duramente per poi essere uccisi come delle bestie al macello. Tutto questo ci terrorizzava e sapevamo che da un giorno all’altro sarebbe toccato anche a noi.
E fu proprio quel giorno quando Ale scomparse nel nulla, quando la mia testa si travolse di quei pensieri che toccò a noi.

Alla fine della scuola ci avviamo per la strada verso casa: avevamo paura, ma dovevamo tornare a casa in fretta.
Le strade verso casa erano come dei cimiteri: l’aria che si respirava era colma di tutto quel male che col tempo si stava dilagando in tutta Europa come una goccia d’acqua. Gli alberi, le foglie e i fiori erano ricoperti da una patina di polvere nera, quasi indelebile. Era come se il tempo si fosse fermato.
Questo ormai era la consuetudine, ed era proprio questo che ci impauriva.
I soldati tedeschi erano da tutte le parti: loro erano i gatti, noi i topi. Bastava una mossa falsa e ci avrebbero trovato, una scusa in più per tornare a casa il più veloce possibile.
boom boom boom

Sentimmo un rumore assordante, come uno sparo di fucile. Ci voltammo e d’improvviso spuntò una moto tedesca con due soldati. Appena la vidi gocce di sudore caddero sul viso, il mio cuore si fermò e rimasi come una statua di roccia, attaccato alla strada.
Julia, invece, mantenne la calma. C’era però un problema: attaccato ai vestiti era impressa la stella di David. Ogni volta che mi osservavo la vedevo, sembrava più grande di tutto il mio corpo, pensavo di essere marchiato come nel Medioevo, ma oltre a questo rappresentava un vero e proprio pericolo. Non potevamo fare niente così ce la strappammo di dosso e la buttammo in un tombino. Quando lo feci mi sentii libero, come scagionato da quella gabbia
che ci rinchiudeva e che ci impediva di essere noi stessi. Il soldato appena ci vide fermò la moto, ci venne incontro. Portava un caschetto verde militare, gli occhi blu come il cielo e i capelli biondi come il sole. Fermarono il loro mezzo e come delle statuine di sabbia scesero dalla moto, con tanta autorevolezza.
Ci chiesero: Wer seid ihr und was macht ihr hier? 1
Julia rispose senza esitare: wir sind zwei polnisce Jungs und wir kommen Nach hause. 2
Con un’occhiata di falco ci risposero: geht und bewegt euch!

1 Chi sei e cosa ci fate qui?
2 Siamo due ragazzi polacchi e stiamo tornando a casa.


Così corsero alla loro moto e se ne andarono. La loro moto era una vera bomba, aveva i sedili
in pelle ed era di un colore verde spento.
Dissi a Julia: “wow anche sta volta ce l’abbiamo fatta”
E lei rispose preoccupata: “sì, ma ora torniamo a casa tua.”
Arrivammo a casa fradici. Avevo freddo, la neve mi era entrata nelle ossa. Appena entrato, però, avvertì che nell’aria c’era qualcosa di diverso. A mia mamma, seduta sulla sedia di legno, scendevano enormi lacrime, come gocce di rugiada.
Non l’avevo mai vista piangere e questo mi rendeva molto triste. I suoi occhi erano neri come dei lividi, non sembrava più lei. Mio papà invece era seduto sul divano, leggeva il giornale.
Non voleva farmi capire che era preoccupato, ma io lo capivo da solo. Il suo sguardo poteva dire tutto, dentro di lui il suo cuore sembrava marcire come una mela. Non sapevo cosa dire, avevo paura per la prima volta di fare uscire la mia rabbia, mi vergognavo della mia famiglia con Julia. Non mi era mai successa una situazione simile. Davanti a Julia sembravamo deboli e indifesi, pronti con poche speranze ad attraversare ciò che ci stavo succedendo. Julia era rimasta in disparte, ma nei suoi occhi leggevo, le urla del suo cuore e, le urla delle sue mani che frettolosamente si muovevano per scaricare l’angoscia, era come se lei avesse già vissuto quel momento.
“Pa-pa-papà, cosa sta succedendo?” dissi balbettando.
Lui rispose, freddo: “Solo una cosa, figlio mio. Siamo in pericolo. Ora vai a mangiare.”
Quella era la frase che più temevo di sentire dopo la scomparsa di Ale, ma in un certo senso me l’aspettavo.
Con Julia ci sedemmo a tavola, turbati ancora da quello che prima avevamo affrontato. Ci aspettava una calda zuppa di verdure con del pane raffermo, quello ormai era il solito piatto da giorni. Era un piatto che ci simboleggiava, per la società eravamo solo delle povere bestie, per tutti non eravamo nessuno.
Sopra il tavolo di legno costruito dal nonno c’era il Der stuerner, il giornale più famoso della Polonia. Lessi la prima pagina: due ebrei sono la nostra sfortuna. Le mani tremolanti, come ramoscelli di ulivo cominciarono a coprire il viso che ormai, dalla tristezza era diventato viola, anche la voce cominciò a raggrinzire come il ferro nell’acqua: “Perché tutto questo odio, cosa abbiamo fatto di male noi?”
Mio papà mi rispose urlando: “metti giù quel giornale”
Non voleva che io sapessi quelle cose, voleva tenermi all’oscuro di tutto. Anche Julia era triste: il naso rosso e gli occhi lucidi potevano dire tutto.
All’improvviso qualcosa cambiò. Il cielo diventò scuro e dalla porta si sentì un rumore
fragoroso, come una bomba che cadeva sul terreno.
Un attimo di silenzio, e successivamente si sentì una voce parlare, era un soldato: “Öffne die Tür, wir wissen, dass du zu Hause bist”
Quando ascoltai quella voce rabbrividii, ma mi sembrava familiare.
Mio papà con la voce inondata dal terrore mi disse: “senti, figlio mio, questa potrebbe essere l’ultima volta che ci vediamo, ora corri a nasconderti in soffitta, dietro l’armadio”. Mentre mi parlava le sue mani tremavano, sentivo da lontano che il suo cuore batteva all’ impazzata, gli occhi si caricavano di quelle fragili lacrime di tristezza, che dopo poco avrebbero bagnato quel viso preoccupato.
Non potevamo parlare o fare un minimo rumore sennò ci avrebbero scoperto.
Con Julia andammo in soffitta, salimmo le scale cercando di non fare nessun rumore.
Sembravamo delle formichine che stanno per essere schiacciate.

Le luci, lassù, erano buie come il cielo fuori.
Sembrava un incubo. Ma era solo l’inizio della nostra nuova vita.
Julia non disse mai una parola, ma il suo sguardo poteva esprimere tutto ciò che le passava nel cervello. Gli occhi erano lucidi come uno spettro d’acqua, e la faccia rossa mi preoccupava a tal punto che mi misi a piangere. Quelle lacrime non erano lacrime di tristezza, anzi della libertà, che ci era stata violata.
Entrammo in soffitta, era buia e scura, le luci erano ricoperte di polvere che negli anni si era depositata. Era da tempo che non mettevo piede in quel luogo dove il tempo si era fermato.
Vidi accanto al fucile del papà, il mio cavallo a dondolo preferito.
Ci giocavo sempre col mio amico Ale, che ora era stato portato via dall’onda che stava travolgendo anche noi. Il mio corpo venne inondato da bellissimi ricordi: le estati sul fiume coi nonni, gli inverni freddi a giocare a palla di neve, e le partite a pallone con i miei amici.
Vennero tutti spazzati via da un frastuono. Subito capii cosa stava succedendo: i tedeschi erano entrati in casa.
Io e Julia subito ci nascondemmo in un vecchio armadio, avvolti da una coperta rossa come il sangue. Faceva molto caldo, era scomodissimo, e ci stavamo a malapena. Eravamo come degli uccelli in gabbia.
Dalla cucina si udì qualcosa in tedesco. Mio papà obbedì.
Andò in camera e prese una valigia di cartone, ci mise dentro alcuni vestiti e gioielli.
La mamma piangeva e, quando sentii i suoi pianti, il mio cuore si spezzò come un pezzo di vetro. Il soldato, sentendola, le puntò il fucile addosso e le urlò qualcosa. Presi molto paura, ma ero anche arrabbiato.
I soldati cominciarono a perquisire la casa, avevano paura che altri ebrei fossero nascosti. Ma non sapevano di noi, pensai. Cominciarono a toccare tutto con violenza e scaraventarono tutto a terra, come diavoli. Non avevano pietà per noi.
Cominciarono a gettare sul pavimento tutti i vasi di porcellana della nonna.
Mia mamma, vedendoli rotti, urlò: “no brutte bestie, tutto tranne questi vasi, sono gli ultimi ricordi della mia famiglia”. Quei vasi per lei erano tutto. Da piccolo una volta, ne ruppi uno e lei, arrabbiata, mi mise in punizione per un mese.
I due soldati li gettarono terra e le puntarono il fucile in tempia.
Questo fece inondare il mio cuore di rabbia. Mi morsi la lingua così forte che uscirono gocce di sangue che dipingevano il ventre del l’armadio.
Volevo uscire da quella gabbia, urlare e spaccare tutto. In passato avevo avuto degli attacchi di rabbia, ma mai uno così forte. Tutto questo per noi non era giusto.
Aprì a malapena l’armadio, neanche una formica poteva passarci e vidi mio padre, nascondere i documenti falsi che c’erano stati dati, per partire verso la Palestina. Quei biglietti per noi erano tutto: la nostra via di salvezza, ma anche la via per la libertà.
Due soldati entrarono in camera e scaraventarono i vestiti e gli armadi a terra. Era tutto distrutto.
D’improvviso sentii uno scricchiolio sulle scale e capii che i tedeschi stavano arrivando in soffitta.
I loro passi erano come boati. Stavano dicendo qualcosa, ma non capii nulla.
Quando entrarono il mio cuore stava impazzendo, ero a pochi passi dalla morte dentro quell’umile e sporco armadio. “Siamo morti”, dissi a Julia.
Lei annuì e mi disse qualcosa, ma i passi dei soldati erano troppo potenti.
Aprii appena l’armadio e vidi, come in cucina, che i due soldati stavano distruggendo tutto.
Quella faccia e quella voce del soldato mi sembravano familiari.
Julia mi disse sottovoce: “quello è il soldato che questa mattina ci ha fermato per strada” “è vero”, annuii.
Capii che quei soldati erano venuti proprio a causa nostra, perché avevano sospettato di noi, o avevano trovato per terra terra la stella di David. Forse ci avevano seguiti fino a casa.
I tedeschi perquisirono la soffitta e gettarono a terra il mio cavallo a dondolo, anche le foto dell’infanzia sugli scatoloni erano state strappate.
Tutto si fermò quando i due avvistarono il nostro armadio. Il soldato che quella stessa mattina ci aveva fermato tirò giù la coperta. Il cuore cominciò a battere all’impazzata, gocce di sudore scesero dalla testa. Braccia e mani cominciarono a tremare all’ impazzata. Il soldato guardò a lungo l’armadio, ma non so per quale motivo non lo aprì. Tirai un sospiro di sollievo. Che stupidi, pensai.
Dalla fessura dell’armadio vidi chiaramente i due soldati portavano ciascuno un caschetto verde sembrava fatto di cera, avevano gli occhi azzurri come il mare e i capelli biondi come il sole appena sorto.
Volevo uscire da quell’armadio e scaraventagli un pugno dritto in faccia. Stavo esplodendo.
Non vedendo niente di interessante in quella vecchia soffitta, i due scesero in cucina.
Si udì una voce: “Gehen wirgen von hässlichen Tieren”.
In quel momento il mio coraggio superò la paura e con un bacio da lontano, salutai mia mamma per l’ultima volta.
Se ne stavano andando via con un cappotto pesante, che avvolgeva quei corpi minuti, e con una valigia non piena di vestiti o gioielli ma di ricordi, che per sempre sarebbero rimasti in quel piccolo pezzo di cartone.
Quella fu l’ultima volta che vidi mia mamma. I miei occhi erano annebbiati di lacrime, non riuscivo a trattenerle, cadevano giù come delle cascate.
Con Julia scendemmo in cucina. Anche le scale erano state distrutte, il tavolo e tutte le sedie erano per terra, la farina, come neve, avvolgeva il pavimento.
Il divano era completamente distrutto e le finestre erano state sventrate.
“Una bomba” sussurrai.
“Ti prego non piangere” disse Julia.
Piangere era una cosa da piccoli, ma in quel momento il dolore era più forte.
“Resteremo uniti” dicemmo insieme, come avevamo da sempre giurato.
Julia mi si avvicinò e mi appoggiò un bacio.
Il viso mi diventò rosso pomodoro e le lacrime di dolore vennero sostituite da lacrime di gioia. Mani e gambe non tremavano più.
Uno spiraglio di luce in tutta quella distruzione.